
L’impatto con HEL, l’aeroporto di Helsinki, me lo aspettavo un po’ diverso. Una volta fatta la tara alla diversa fisiognomica dell’umanità pascolante, alla maggiore pulizia e alla totale inaccessibilità della lingua, si vede chiaramente che l’aeroporto è nato e pensato in un tempo in cui si viaggiava in modo diverso. Essenzialmente di meno e verso meno posti.
Ci sono le vetrate sulle piste e sulle aree di parcheggio che sono sempre un evergreen, ma basta voltare le spalle ai vetri per vedere duty-free, mangiatoie e altro negoziame vario, incastrati sotto la copertura vecchietta – molto fifties a pannelli bucherellati – come una specie di favela sotto un cavalcavia. Questa espansione rinascentistica deve essere coincisa con l’apertura del rotte verso l’Asia (notate che dal ’99 ad oggi i transiti internazionali sono raddoppiati) , che ha promosso un normale scalo nordico in un hub globale al servizio del nuovo che avanza. E ovviamente si è portata con sé ettari di spazio calpestabile, la cui perdita ha trasformato un luogo piacevole e architettonicamente significativo in poco più di un angusto corridoio per il passaggio, stretto fra la favela e i micro-gate spiaccicati contro i vetri e affollati di orde mongole con mascherine e ombrelli. Fiumicino è il ground zero, qui è il ground uno, massimo due. Anzi tre: c’è il wi-fi gratis. Se no erano cazzi.